Cosa può mai nascondere un paffuto panettiere coi baffetti a ricciolino, nel suo tranquillo forno frequentato soprattutto da nonnette e ragazzini? Armandino Luglio non se ne riesce ancora a fare capace, eppure Otto Oktober (ma le vecchiette non lo sanno dire e lo chiamato ormai tutti Ottobre!), a dispetto del suo faccione pacioccone, è un tipo scaltro, e sa come mantenere un segreto!
L’avventura del mese:
Otto Ottobre.
Panettiere.
L’odore del pane appena sfornato era stato il motore che aveva spinto Otto Ottobre a diventare fornaio.
Da bambino restava le ore a guardare sua madre che impastava con cura sul grande tavolaccio di legno, affiancata da nonna e zie col capo coperto da scialletti sotto cui spuntavano ciuffi grigi e bianchi. Bianche erano anche le braccia e i grembiuli, per gli sbuffi di farina, quella che con i cugini, che portavano i calzoni al ginocchio come lui, andava a prendere al mulino. Si correva in fila, lungo lo sterrato dove passavano qualche auto sporadica e tanti carretti trainati dai muli, e si facevano le gare: i più piccoli seduti dentro le carriole e i più grandi che le spingevano correndo e deviando per non finire nei solchi.
Il pane veniva preparato per tutti e poi distribuito in sacchi e ceste, perché il paese era distante e comprarlo ogni giorno troppo scomodo. Più vicino il mulino. Ma quando andava in paese, per Otto era una festa che finiva col portarlo sempre fuori alle porte del piccolo forno. Una bottega con vetrina piena di pani e dolci, dalla quale sbirciare la fatica del fornaio dalla fronte sudata e che si alzava di notte, ma che, da dietro al bancone, non risparmiava un sorriso a nessun cliente che andava via felice, con quel sacchetto di cartone dal quale volava via l’odore fragrante della pagnotta calda. Il naso infilato nei sacchetti era quasi un rito e il sorriso che disegnava sulle labbra delle persone era la magia che avrebbe voluto ricreare anche lui.
La magia della gioia che un singolo pezzo di pane sapeva dare e della sorpresa sul volto dei bambini che restavano appiccicati ai vetri a sbirciare.
Un po’ come il figlio dei Luglio e i suoi amichetti.
Otto li vide che, come al solito, stavano lì attaccati alla vetrata della panetteria a guardare taralli e filoncini, tartarughe e ciabattine, grissini e sacher nere nere. Una festa di forme e di colori.
Tra tutte, la preferita era una. La regina della semplicità.
La Rosetta dell’Imperatore.
Il piccolo Armandino la teneva puntata. Sulla faccia, ogni volta che usciva con il solito sacchetto che lo mandava a prendere la mamma, leggeva la stessa felicità che aveva avuto lui alla sua età.
Però Armandino era furbo. Molto più furbo. E attento. E ai suoi quattro occhi non sfuggiva nulla.
I ragazzini di adesso si domandavano quei perché che ai suoi tempi erano stati più semplici e parlavano di ricette, di farine, di tempi di cottura, modalità d’impasto. Ora gli occhi cercavano di scoprire i trucchi, svelare gli inganni, leggere la soddisfazione nelle iridi che brillavano a quel ‘ho capito’ che speravano di raggiungere.
E Armandino voleva raggiungere il segreto delle sue michette.
Perché aveva compreso che ne nascondevano uno, aveva compreso che c’era qualcosa di strano dietro la perfezione delle forme e nei semini. Nella disposizione dei semini.
Otto lanciò un’occhiata divertita al bambino che era di nuovo lì, affacciato alla vetrina, con le mani messe a coppa ai lati degli occhi per nascondere il riflesso della luce e riuscire a vedere bene l’interno. Poi, la ragazzina con i capelli neri e gli occhi a mandorla lo strattonò per il colletto della giacca e il giovane, suo malgrado, fu costretto ad andare via, non senza prima aver scambiato con lui uno sguardo di sfida.
Oh, oh, oh. Piccolo junge. Prima o poi ci arriverai. Ma non sarà quest’oggi.
«Signor Otto, buongiorno.»
«Oh, guten morgen, signora Pagnotta.»
Una delle sue clienti abituali, il cui capo era una nuvola grigia dalle sfumature azzurrine, guardò il bancone con impazienza e poi alzò gli occhi, stando ben attenta a sporgersi un po’ in avanti e guardarlo da sopra lenti che le scivolavano fino alla punta del naso.
«Sono già uscite le michette?»
«Ja. Quest’oggi le abbiamo con semi di sesamo nero.»
«Oh… speravo di trovarle con quelli di papavero. E va be’, mi aggiusterò. Me ne dia le solite tre.»
«Signora mia, è sempre difficile accontentare tutte», sorrise Otto, lisciando il baffo. La signora annuì comprensiva mentre lui le riempiva un sacchetto con tre michette fresche e glielo lasciava aperto, per farle salire su l’odorino e permetterle di sbirciare.
«Bene, bene…» disse la donna, dopo aver girato un po’ il cartoccio tra le mani e aver guardato dentro a lungo. «Allora a posto così. Col conto ci aggiustiamo come al solito nel fine settimana, per tutto il resto… a sabato!» concluse con un brillio negli occhi.
«A sabato, signora mia!»
Sì, un giorno Armandino ci sarebbe arrivato e chissà che faccia avrebbe fatto nello scoprire che la disposizione dei semini non era certo casuale, ma nascondeva un piccolo codice di numeri e orari.
E chissà che faccia avrebbe fatto, quando avrebbe capito che il tipo di semi corrispondeva a un preciso giorno della settimana.
Il mistero gli sarebbe sembrato ancora più fitto, ancora più misterioso.
Ma quello era un gioco destinato alle signore del quartiere, per mantenersi allenate e sveglie. Un gioco per tenere loro compagnia e farle divertire nei lunghi giorni che si ripetevano sempre uguali, dopo un po’, sempre chiusi nella routine da nonna che però non voleva rinunciare a un brivido di avventura e di libertà nel portare avanti i propri interessi.
Le aveva sentite mentre lo dicevano proprio presso al suo bancone: gli erano apparse come un nugolo di cinquanta sfumature di tinta. Così lui aveva proposto, loro avevano accettato, e ora si divertivano a scoprire e decifrare i suoi semplici codici creati con i semini di cui avrebbero finito per parlare nel giorno e nell’ora stabiliti, tra una partita a canasta e una a burraco.
Davvero, chissà che faccia avrebbe fatto, il piccolo Armandino, quando avrebbe scoperto il Circolo Segreto delle Rosette.